Il mistero dei bifacciali

Un paio di giorni fa mi è successa una cosa molto emozionante. È uscito un mio lavoro che racchiude in una manciata di pagine quasi tutta la mia vita professionale. Mi ha dato l’impressione di un viaggio nel tempo, che mi ha portato non solo alla scoperta di un’umanità antichissima, ma anche alle origini della mia passione per questi temi.

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Lo studio cerca di rispondere ad una domanda che chi lavora nell’archeologia preistorica si è chiesto per oltre un secolo. A un certo punto della storia umana (quasi due milioni di anni fa) i nostri antenati in giro per il mondo hanno inventato e usato uno strumento nuovo, difficile da produrre ma estremamente innovativo, versatile, e (diciamocelo) anche molto bello da vedere: il bifacciale (a volte chiamato anche “amigdala”). I bifacciali sono pietre lavorate fino ad avere una forma molto caratteristica, simile a quella di una goccia o di una mandorla.

Foto da quattro prospettive diverse di un bifacciale trovato nel sito di West Tofts, Norfolk, Inghilterra. Fonte dell’immagine

Da quando sono stati scoperti, però, ci si è resi conto che i bifacciali nascondevano un mistero. Pur essendo stati prodotti e utilizzati per oltre un milione e mezzo di anni in Africa, Asia ed Europa, non si trovano ovunque. Ci sono molti siti archeologici in cui se ne ritrovano tanti, e altri (magari non molto lontani nello spazio e/o nel tempo) dove non ce n’è traccia. Perchè?

I siti in bianco (Acheuleani) sono quelli con i bifacciali, analizzati nel nostro studio. Nei siti in nero invece, i bifacciali non sono stati trovati.

Insieme ai miei colleghi di Cambridge e di Buffalo abbiamo trovato una risposta a questo enigma, almeno per quanto riguarda l’Europa. Ha a che fare con il clima, perchè vediamo che i bifacciali erano prodotti in aree con caratteristiche ben precise: non troppo calde, non troppo fredde, non troppo aride… potremmo dire un clima “piacevole” almeno dal nostro punto di vista moderno. Ma questo non vuol dire che i bifacciali venissero usati per attività strettamente legate a questo clima, o agli animali o le piante che vi si trovavano, perchè già si sapeva che non è questo il caso.

E allora? E allora c’è un’altra variabile che dobbiamo prendere in considerazione: la cultura. Diversi studi (ad esempio questo, pubblicato nel 2009 su Science) hanno dimostrato che quando i gruppi umani sono più grandi, non solo è più facile che ci siano invenzioni o innovazioni complesse, ma anche che il modo di realizzarle venga insegnato ad altre persone, e che quindi si possa continuare a produrle e a usarle nel tempo. Quando invece i gruppi sono più piccoli, è molto più facile che una conoscenza o una competenza vengano dimenticate, se chi le aveva non è stato in grado di trasmetterle ad altre persone che le mantenessero vive.

E quindi la nostra conclusione è questa: troviamo l’Acheuleano (ovvero la cultura dei bifacciali) nelle zone con un clima più favorevole, perché era lì che la densità di popolazione era più alta e quindi era più facile che le competenze complesse richieste per produrli venissero trasmesse nel tempo.

Una volta rispolto il mistero dei bifacciali, riguardando alcune delle nostre analisi abbiamo notato un particolare molto importante. Non è difficile trovare i bifacciali in zone geografiche molto aride in estate, oppure molto fredde in inverno. Ma non li troviamo in posti che sono allo stesso tempo molto freddi in inverno e molto aridi in estate. Questo ci suggerisce che le popolazioni che li producevano rimanessero in questi siti solo nella stagione in cui il clima era favorevole, e invece si spostassero altrove quando era troppo freddo o arido.

Ipotesi di migrazione stagionale per le popolazioni che producevano i bifacciali. I nostri risultati suggeriscono che le aree in arancione erano abitate solo in inverno, quelle in viola solo in estate.

Questo genere di migrazione stagionale è un comportamento comune nella nostra specie, Homo sapiens. Ma nel nostro studio abbiamo analizzato popolazioni umane vissute fra gli 800 e i 130 mila anni fa: appartenevano a specie molto diverse dalla nostra (ad esempio Homo heidelbergensis, Homo antecessor, o altre forme umane di difficile definizione come il cranio di Ceprano). Una migrazione stagionale per centinaia di chilometri implica capacità cognitive complesse, ad esempio quelle necessarie a pianificare strategicamente le attività in previsione di eventi futuri e in anticipo rispetto ai bisogni immediati. E questa possibilità non era ancora mai stata dimostrata per esseri umani così antichi.

E infine una piccola nota personale.

All’inizio ho scritto che questo articolo racchiude in poche pagine tutto il mio pecorso professionale. All’università ho studiato archeologia preistorica a Ferrara, e ho scoperto i bifacciali e le popolazioni che li costruivano grazie alle bellissime lezioni dei proff. Antonio Guerreschi e Carlo Peretto. Con quest’ultimo ho anche scavato per molti anni a Isernia la Pineta, che ho avuto il piacere di citare in questo articolo. È a loro che vorrei dedicare questo lavoro, ringraziandoli per tutto quello che mi hanno insegnato e per aver, senza saperlo, posto molti anni fa le basi di questo studio.

La nicchia climatica del leopardo mostra poche differenze fra Africa e Asia

È uscito in bioRxiv il preprint che riassume la tesi triennale (Part II project) di Sidney Leedham:

Sidney Leedham, Johanna L. A. Paijmans, Andrea Manica, Michela Leonardi
Niche conservatism in a generalist felid: low differentiation of the climatic niche among subspecies of the leopard (Panthera pardus)
bioRxiv 2023.01.26.525491

Il leopardo (Panthera pardus) è una specie generalista che vive in un’area geografica molto ampia: lo si può trovare nella maggior parte dell’Africa nel sud dell’Eurasia. È suddiviso in diverse sottospecie, una africana e otto asiatiche, che sono il risultato di un’antica espansione dall’Africa.

Abbiamo raccolto da articoli scientifici e database online una lista di presenze di leopardi in Africa e in Asia. Lo scopo era cercare di capire se le sottospecie asiatiche vivono nello stesso clima di quella africana o se, nella loro espansione, si sono adattate a nuove condizioni climatiche.

Abbiamo usato l’analisi delle componenti principali per visualizzare la nicchia climatica occupata da ognuna delle sottospecie all’interno dello spazio climatico disponibile in Africa e Eurasia. Le abbiamo poi confrontate per capire le differenze fra i leopardi asiatici e quelli africani: nella maggior parte dei casi c’è una sovrapposizione totale, o quasi. L’unica eccezione è il leopardo persiano in cui c’e’ evidenza di una possibile espansione della nicchia.

Questi risultati sono avvalorati dalla modellizzazione ecologica. Ricostruendo l’areale della specie utilizzando solo le presenze africane, la distribuzione viene ricostruita in modo abbastanza accurrato, escludendo solo la parte più settentrionale della distribuzione, quella con condizioni climatiche che non sono presenti in Africa.

Questi risultati ci aiutano a capire meglio come varia l’ecologia del leopardo nel suo areale, una conoscenza che è vitale per l’effettiva conservazione della sua popolazione più distinta e vulnerabile

Preprint

Sidney Leedham, Johanna L. A. Paijmans, Andrea Manica, Michela Leonardi
Niche conservatism in a generalist felid: low differentiation of the climatic niche among subspecies of the leopard (Panthera pardus)
bioRxiv 2023.01.26.525491. doi: https://doi.org/10.1101/2023.01.26.525491

Abstract

Aim Species distribution modelling can be used to reveal if the ecology of a species varies across its range, to investigate if range expansions entailed niche shifts, and to help assess ecological differentiation: the answers to such questions are vital for effective conservation. The leopard (Panthera pardus spp.) is a generalist species composed of one African and eight Asian subspecies, reflecting dispersal from an ancestral African range. This study uses species distribution models to compare the niches of leopard subspecies, to investigate if they conserved their niches when moving into new territories or adapted to local conditions and shifted niche.

Location Africa and Eurasia

Methods We assembled a database of P. pardus spp. presences. We then associated them with bioclimatic variables to identify which are relevant in predicting the distribution of the leopard. We then constructed a species distribution model and compared the distribution predicted from models based on presences from all subspecies versus the ones built only using African leopards. Finally, we used multivariate analysis to visualise the niche occupied by each subspecies in the climate space, and to compare niche overlaps to assess ecological differentiation.

L’effetto del clima e delle montagne sulla variabilità genetica umana

Un preprint a cui ho collaborato è appena uscito su bioRxiv!

In questo lavoro, abbiamo studiato il ruolo del clima e delle montagne nel plasmare la variabilità genetica umana passata e presente.

Lo studio del DNA ci dice che le popolazioni umane contemporanee derivano dalla mescolanza di gruppi ancestrali diversi fra loro, le cui origini sono sconosciute. In teoria, analizzare campioni di DNA antico potrebbe aiutare a capire meglio la loro origine, Purtroppo in questo caso non è possibile perché non abbiamo abbastanza campioni dell’età giusta.

Per questo motivo abbiamo utilizzato una strategia diversa. Abbiamo simulato la storia genetica degli esseri umani nella loro diffusione fuori dall’Africa, utilizzando diversi valori per definire come le popolazioni si spostavano e reagivano ai cambiamenti del clima. In questo modo possiamo vedere se siamo in grado di ricostruire la diversità genetica osservata (spoiler: sì!) e quali parametri e variabili climatiche l’hanno influenzata.

Per esempio, i nostri risultati indicano che l’aridità è il fattore chiave che controlla quando gli esseri umani sono usciti dall’Africa per colonizzare il resto del mondo. Abbiamo anche visto che le montagne possono agire come enormi barriere genetiche ma solo in alcune aree (ad esempio succede per il Caucaso e l’Himalaya, ma non per gli Urali).

Grazie a questo studio, non solo abbiamo potuto ricostruire una parte importante della nostra storia genetica, ma abbiamo anche potuto definire quanto e quando il clima e le montagne hanno facilitato o ostacolato la nostra diffusione fuori dall’Africa.

Preprint

Pierpaolo Maisano Delser, Mario Krapp, Robert Beyer, Eppie R Jones, Eleanor F Miller, Anahit Hovhannisyan, Michelle Parker, Veronika Siska, Maria Teresa Vizzari, Elizabeth J. Pearmain, Ivan Imaz-Rosshandler, Michela Leonardi, Gian Luigi Somma, Jason Hodgson, Eirlys Tysall, Zhe Xue, Lara Cassidy, Daniel G Bradley, Anders Eriksson, Andrea Manica
Climate and mountains shaped human ancestral genetic lineages
bioRxiv 2021.07.13.452067; doi: https://doi.org/10.1101/2021.07.13.452067

Abstract

Extensive sequencing of modern and ancient human genomes has revealed that contemporary populations can be explained as the result of recent mixing of a few distinct ancestral genetic lineages. But the small number of aDNA samples that predate the Last Glacial Maximum means that the origins of these lineages are not well understood. Here, we circumvent the limited sampling by modelling explicitly the effect of climatic changes and terrain on population demography and migrations through time and space, and show that these factors are sufficient to explain the divergence among ancestral lineages. Our reconstructions show that the sharp separation between African and Eurasian lineages is a consequence of only a few limited periods of connectivity through the arid Arabian peninsula, which acted as the gate out of the African continent. The subsequent spread across Eurasia was then mostly shaped by mountain ranges, and to a lesser extent deserts, leading to the split of Europeans and Asians, and the further diversification of these two groups. A high tolerance to cold climates allowed the persistence at high latitudes even during the Last Glacial Maximum, maintaining a pocket in Beringia that led to the later, rapid colonisation of the Americas. The advent of food production was associated with an increase in movement, but mountains and climate have been shown to still play a major role even in this latter period, affecting the mixing of the ancestral lineages that we have shown to be shaped by those two factors in the first place.

Una nuova spiegazione per la struttura genetica della parula delle mangrovie

È appena uscito su BioRxiv un nuovo preprint a cui ho lavorato.

Quando le specie temperate che vivono nell’emisfero nord mostrano una struttura genetica senza che ci sia un motivo evidente per spiegarla, è probabile che dipenda da ciò che è successo durante l’ultima glaciazione.

L’espansione dei ghiacci intorno a 21.000 anni fa ha portato molte specie a doversi spostare nei cosiddetti “rifugi glaciali”, zone più a sud dove il clima rimaneva più mite. Se di zone rifugio ce n’erano più di una, ed erano isolate fra di loro, quella che prima era una singola popolazione poteva dividersi e differenziarsi, e poi mantenuere questa struttura genetica tornando a nord dopo la fine della glaciazione.

È importante, però, non dare per scontato che la presenza di rifugi glaciali diversi sia la spiegazione principale quando si osserva della struttura genetica. Per dimostrarlo, abbiamo testato se questa ipotesi è valida per la parula delle mangrovie (Setophaga petechia), un piccolo uccello passeriforme di colore giallo che vive nel Nord America.

Maschio di parula delle mangrovie (Setophaga petechia).
Foto di Alan Vernon da Flickr. Licenza: CC BY-NC-SA 2.0 

Un articolo che studia la genetica di questa specie ha trovato una struttura molto evidente: le popolazioni dell’est e dell’ovest sono piuttosto diverse fra di loro, mentre quelle che vivono nella zona centrale sembrano avere caratteristiche intermedie fra le altre due.

Nel nostro studio abbiamo simulato esplicitamente la storia genetica di questo uccellino negli ultimi 50.000 anni. In questo modo abbiamo potuto testare se durante il massimo glaciale (intorno a 21.000 anni fa) la specie si fosse spostata in un solo rifugio o in più di uno, e cosa è avvenuto durante il ripopolamento del Nord America quando il clima è tornato ad essere più caldo.

Immagine

Usando queste simulazioni abbiamo potuto dimostrare che la parula delle mangrovie aveva un solo rifugio glaciale. La diversità genetica osservata è invece il risultato di un’espansione asimmetrica. I ghiacci si sono ritirati in periodi diversi nell’est e nell’ovest del Nord America, e le popolazioni sono tornate verso nord in momenti diversi, il che ha creato la struttura genetica che possiamo osservare oggi.

È importante ricordare che la presenza di rifugi glaciali multipli è solo una delle possibili spiegazioni per la struttura genetica in una popolazione. Invece di considerarla la risposta standard, dovremmo verificare se è la spiegazione più probabile per la specie che si sta studiando.

Preprint

Eleanor F. Miller, Michela Leonardi, Robert Beyer, Mario Krapp, Marius Somveille, Gian Luigi Somma, Pierpaolo Maisano Delser, Andrea Manica
Post-glacial expansion dynamics, not refugial isolation, shaped the genetic structure of a migratory bird, the Yellow Warbler (Setophaga petechia)
bioRxiv 2021.05.10.443405; doi: https://doi.org/10.1101/2021.05.10.443405

ABSTRACT

During the glacial periods of the Pleistocene, swathes of the Northern Hemisphere were covered by ice sheets, tundra and permafrost leaving large areas uninhabitable for temperate and boreal species. The glacial refugia paradigm proposes that, during glaciations, species living in the Northern Hemisphere were forced southwards, forming isolated, insular populations that persisted in disjunct regions known as refugia. According to this hypothesis, as ice sheets retreated, species recolonised the continent from these glacial refugia, and the mixing of these lineages is responsible for modern patterns of genetic diversity. However, an alternative hypothesis is that complex genetic patterns could also arise simply from heterogenous post-glacial expansion dynamics, without separate refugia. Both mitochondrial and genomic data from the North American Yellow warbler (Setophaga petechia) shows the presence of an eastern and western clade, a pattern often ascribed to the presence of two refugia. Using a climate-informed spatial genetic modelling (CISGeM) framework, we were able to reconstruct past population sizes, range expansions, and likely recolonisation dynamics of this species, generating spatially and temporally explicit demographic reconstructions. The model captures the empirical genetic structure despite including only a single, large glacial refugium. The contemporary population structure observed in the data was generated during the expansion dynamics after the glaciation and is due to unbalanced rates of northward advance to the east and west linked to the melting of the icesheets. Thus, modern population structure in this species is consistent with expansion dynamics, and refugial isolation is not required to explain it, highlighting the importance of explicitly testing drivers of geographic structure.

L’effetto dei cambiamenti climatici del passato sugli uccelli

European robin (Erithacus rubecula), picture by Michela Leonardi
Pettirosso (Erithacus rubecula), una delle specie analizzate nell’articolo.
Foto di Michela Leonardi

Abbiamo appena pubblicato su bioRxiv un nuovo preprint dal titolo: mtDNA-based reconstructions of change in effective population sizes of Holarctic birds do not agree with their reconstructed range sizes based on paleoclimates. La prima autrice è Eleanor Miller, del Dipartimento di Zoologia dell’Università di Cambridge, che ha lavorato sotto la supervisione di Andrea Manica e William Amos (anche loro con la stessa affiliazione).

ATTENZIONE: Questo articolo è un preprint, che vuol dire che non è ancora stato sottoposto a una revisione fra pari (peer-review), per il momento è stato inviato a una rivista scientifica e attende di essere valutato. E’ probabile quindi che la versione finale, dopo il processo di revisione, contenga diversi cambiamenti inclusi nuovi risultati o potenziali nuove analisi a sostegno dei risultati.

In questo articolo abbiamo studiato 102 specie di uccelli che vivono in ambienti diversi di Eurasia e Nord America, cercando di capire in che modo i cambiamenti climatici che sono avvenuti dopo l’ultimo massimo glaciale (intorno ai 21.000 anni fa) hanno influenzato la loro demografia. Infatti durante l’ultimo massimo glaciale il clima era molto più freddo, il ghiaccio perenne copriva gran parte dell’emisfero nord, e alcuni ambienti erano molto più diffusi (ad esempio la steppa e le praterie fredde) mentre altri erano molto meno diffusi (per esempio le foreste). Per questo ci si poteva aspettare una differenza nella risposta demografica di specie che vivono in ambienti diversi.

Ricostruire la demografia del passato è un compito molto difficile, non c’è un metodo che permetta di farlo in modo diretto. Quello che si può fare è usare diversi metodi che calcolano delle misure che possano darci informazioni indirette su quello che poteva essere il numero di individui in un determinato momento. Nel nostro articolo abbiamo usato due di questi metodi,  che si basano su dati diversi e assunzioni diverse, in modo da massimizzare la quantità di informazioni ricavate.

Il primo di questi approcci sono i Bayesian Skyline Plot [1], che ricostruiscono la dimensione effettiva della popolazione [2] nel tempo sulla base del DNA mitocondriale. Nonostante il nome possa trarre in inganno, questa misura non è strettamente legata al numero di individui, indica piuttosto il grado di variabilità genetica presente nella popolazione. Si basa sull’assunzione che la tutti gli individui abbiano la possibilità di incrociarsi fra di loro, e la stessa probabilità di riprodursi: in queste condizioni una popolazione con più individui ha una variabilità genetica più alta, per questo motivo le ricostruzioni della dimensione effettiva sono considerate informative sulla demografia. Tuttavia vanno interpretate con attenzione perchè possono essere influenzate anche dal grado di isolamento geografico, dalla presenza di barriere geografiche fra gruppi di individui, e da molti altri fattori. Pubblicherò fra poco un capitolo di libro su questo tema, che mette in chiaro alcuni degli errori più frequenti che si possono fare nell’interpretazione di questo genere di informazioni.

Il secondo metodo è la modellizzazione ecologica della distribuzione delle specie (in inglese Species Distribution Modelling) [3]. Questa classe di metodi associa le osservazioni di una specie con le caratteristiche ambientali o climatiche in cui vive, per ricostruire l’areale di distribuzione potenziale sia nel presente, sia nel passato (o nel futuro) quando sono disponibili simulazioni del clima di altri periodi. Anche in questo caso la dimensione dell’areale di distribuzione non è direttamente correlata al numero di individui, ma spesso si usa questa misura come proxy della demografia presupponendo che areali più grandi possano sostenere un maggior numero di individui. 

Abbiamo confrontato le traiettorie degli skyline plots negli ultimi 21.000 anni con le differenze fra gli areali di distribuzione di 21.000 anni fa e del presente. Nonostante si osservi nella maggior parte delle specie un aumento in entrambe le misure, le traiettorie delle due misure non sono correlate. Probabilmente ci troviamo di fronte a fenomeni che non sono evidenti solo sulla base delle due misure analizzate, come ad esempio dei cambi di densità di popolazione.

Le nostre analisi dimostrano che quando si parla di demografia del passato è fondamentale non considerare le informazioni tratte da un solo metodo, e ricordare che dietro ad ogni modello o misura ci sono delle assunzioni importanti che vanno testate volta per volta. La realtà è sempre più complessa dei metodi che usiamo per ricostruirla, per questo bisogna integrare diversi approcci in modo da riuscire ad avere un quadro della situazione il più completo possibile. 

Ecco le informazioni bibliografiche e l’abstract dell’articolo (in inglese). 

mtDNA-based reconstructions of change in effective population sizes of Holarctic birds do not agree with their reconstructed range sizes based on paleoclimates

During the Quaternary, large climate oscillations had profound impacts on the distribution, demography and diversity of species globally. Birds offer a special opportunity for studying these impacts because surveys of geographical distributions, publicly-available genetic sequence data, and the existence of species with adaptations to life in structurally different habitats, permit large-scale comparative analyses. We use Bayesian Skyline Plot (BSP) analysis of mitochondrial DNA to reconstruct profiles depicting how effective population size (Ne) may have changed over time, focussing on variation in the effect of the last deglaciation among 102 Holarctic species. Only 3 species showed a decline in Ne since the Last Glacial Maximum (LGM) and 7 showed no sizeable change, whilst 92 profiles revealed an increase in Ne. Using bioclimatic Species Distribution Models (SDMs), we also estimated changes in species potential range extent since the LGM. Whilst most modelled ranges also increased, we found no correlation across species between the magnitude of change in range size and change in Ne. The lack of correlation between SDM and BSP reconstructions could not be reconciled even when range shifts were considered. We suggest the lack of agreement between these measures might be linked to changes in population densities which can be independent of range changes. We caution that interpreting either SDM or BSPs independently is problematic and potentially misleading. Additionally, we found that Ne of wetland species tended to increase later than species from terrestrial habitats, possibly reflecting a delayed increase in the extent of this habitat type after the LGM.

bioRxiv 2019.12.13.870410; doi: https://doi.org/10.1101/2019.12.13.870410

Bibliografia

[1] Ho SYW, Shapiro B. 2011. Skyline-plot methods for estimating demographic history from nucleotide sequences. Mol. Ecol. Resour. 11:423–434. https://doi.org/10.1111/j.1755-0998.2011.02988.x

[2] Hawks J. 2008. From Genes to Numbers: Effective Population Sizes in Human Evolution. In Recent Advances in Palaeodemography: Data, Techniques, Patterns. https://doi.org/10.1007/978-1-4020-6424-1_1

[3] Elith J, Leathwick JR. 2009. Species Distribution Models: Ecological Explanation and Prediction Across 537 Space and Time. Annu Rev Ecol Evol Syst. 40(1):677–697. https://doi.org/10.1146/annurev.ecolsys.110308.120159